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Tonio Mura 19 ottobre 2017
L'opinione di Tonio Mura
Il canto delle sirene, l´erba voglio non esiste


Una delle espressioni che più ricordo e che più condizionarono la mia crescita, veniva ripetuta da mio padre ogni qualvolta provavo ad alzare la portata delle mie richieste, e serviva a farmi digerire i suoi "no" e a placare la mia fastidiosa insistenza. Così diceva: “l'erba voglio non esiste”. Già, l'erba voglio non esiste, e di conseguenza deduco che tale espressione sia applicabile anche ad altri settori oltre quello educativo. Sicuramente ha un suo senso quando parliamo di iniziative economico-produttive che hanno la forza di incidere sull'interesse più generale o, per dirla diversamente, sul bene comune. Nella sostanza mi riferisco a interessi privati o particolari che si frappongono agli interessi della comunità. Di più: in un contesto politico facilmente corruttibile o in una fase economica di recessione, spesso la spinta a ottenere vantaggi privati è sostenuta attraverso operazioni di scambio politico o di vendita di beni pubblici, per esempio a holding di un certo livello, che impoveriscono ulteriormente il contesto sociale dove ciò accade. Assai spesso sono le stesse holding a direzionare le scelte politiche di una Regione o di un Comune, generando non pochi problemi anche sul piano della giustizia sociale, perché quello che è dato agli uni non viene dato ad altri.

Si potrebbe dire che questo sta nella logica liberista che guida la politica degli ultimi decenni, ma sinceramente scomodare il pensiero economico più in voga per giustificare certe forme di malaffare o di pessima amministrazione mi sembra alquanto improprio. Pare, ad esempio, che dietro al nuovo PPR si muovano le lobby dell'edilizia isolana, che da tempo lamentano la crisi del settore. Parimenti si muovono i grandi gruppi alberghieri interessati all'investimento immobiliare. La pressione è davvero tanta, soprattutto dopo l'esploit turistico della Sardegna registrato negli ultimi due anni, più a causa delle guerre e del terrorismo che per la sola qualità dell'offerta. Fatto sta che per gli investitori, se non proprio speculatori, ogni occasione è buona per dirottare porzioni di ricchezza nelle mani di pochi, assoggettando i territori a forme di economia legate alla precarietà, alla stagionalità e alla fatalità degli eventi bellici. Scendendo nello specifico di casa nostra, due sono gli elementi che più saltano agli occhi: l'assalto all'area vasta di Maria Pia e al Parco di Porto Conte e la vendita delle aziende di Surigheddu e Mamuntanas. Nel primo caso i propugnatori della proposta sostengono che sia urgente ammodernare l'offerta turistica del nostro territorio e, guarda caso, perché ciò possa avverarsi, è necessario sacrificare all'edilizia importanti aree di pregio ambientale e naturalistico che, almeno sino ad oggi, si sono faticosamente preservate dalla speculazione.

Purtroppo i processi in atto (in primis il project financing per gli alberghi a Maria Pia) non fanno ben sperare, non fosse altro perché siamo alle intimidazioni e alle carte bollate. Per quanto riguarda il Parco di Porto Conte, nel silenzio più assoluto e sembra attraverso qualche prestanome, si sono e si stanno realizzando operazioni di compravendita di terreni oggi vincolati, o parzialmente vincolati, che possono rappresentare l'inizio di un percorso che inevitabilmente condurrà alla richiesta di volumetrie per nuovi insediamenti turistici. Chi vivrà vedrà! La vicenda di Surigheddu e Mamuntanas invece ha dell'assurdo, perché è più che mai evidente che sul territorio ci siano operatori agricoli capaci di prendersi cura del riavvio produttivo delle due aziende. E' manifesto, per esempio, l'interesse dei produttori di olio extravergine di oliva, di grano Cappelli o altro grano dai sapori antichi e di carciofi spinosi, insieme a quello delle cooperative che vogliono operare nel campo dell'agricoltura sociale. Nonostante ciò la Regione Sardegna, attuale fortuita proprietaria delle due aziende, fa orecchie da mercante (nel vero senso della parola) e continua a trattare per la vendita in blocco e al buio dei due comprensori agricoli, tra i più fertili della Sardegna e potenziale motore per la ripresa agricola della Nurra.

Basti un solo esempio per capire quanto sia spregiudicata questa operazione: alcuni pastori che operano in loco sembra siano disponibili ad acquistare la terra di pascolo pagando euro 25.000 a ettaro, pur di risolvere la diatriba di usucapione con la Regione Sardegna. Appena più avanti, nel territorio di Olmedo, un ettaro di terra fertile non costa meno di euro 50.000 a ettaro. L' operazione di vendita gestita dalla Regione, nella migliore delle ipotesi, porterà nelle casse la miseria di euro 10.000 a ettaro, praticamente un regalo a favore dell'acquirente, semplicemente perché il valore di mercato del bene fondiario vale più del triplo se non il quadruplo (cui si aggiungono le quote PSR che volano altrove). E tutto questo senza considerare le volumetrie disponibili! Un’operazione simile è stata portata a termine nel Comune di Arborea a favore di Bonifiche Ferraresi, una holding (società di capitali) che opera nel settore dell'agricoltura con azionisti forti come Dompè, De Benedetti, Cremonini, Gavio e la Cariplo, personaggi che sicuramente conoscono i soldi ma non come si aziona una mungitrice o come si fa la potatura di produzione di un ulivo. Oggi ad Arborea si teme che Bonifiche Ferraresi entri in concorrenza con i produttori locali e che l'obiettivo a medio/lungo termine sia l'assalto alla cooperativa 3A. Tutto questo si inserisce in un contesto in cui la bilancia sarda del commercio alimentare è deficitaria di ben 2 miliardi e mezzo di euro, a fronte di 4 miliardi di consumi totali annui; significa che oltre il 60 per cento del cibo consumato è di importazione (dati forniti al Convegno della diocesi Alghero-Bosa "Le comunità locali e la prospettiva di lavoro nelle campagne", coordinato dall'ufficio diocesano per i problemi sociali e il lavoro, Alghero 13 ottobre u.s.).

L'erba voglio non esiste. Perché non esiste che l'interesse di pochi privati danarosi sia a discapito dei beni che appartengono alla comunità. Che l'operazione Maria Pia si risolva in una mera speculazione edilizia, così come capitò al Lido, ci vuole poco per intuirlo. Che la vendita di Surigheddu e Mamuntanas risponda a logiche estranee al nostro territorio ormai è abbastanza chiaro. Rimane il fatto che se queste operazioni dovessero andare in porto, gli algheresi saranno decisamente più poveri. Perché l'edilizia speculativa non ridistribuisce ricchezza e tantomeno certe forme di investimento fondiario. E' una mera illusione pensare che il sacrificio di territori di pregio possa garantire più occupazione stabile, specialmente se gli stipendi dipendono dall'umore degli investitori non locali, gli stessi che considerano il profitto come fine ultimo di tutte le loro operazioni. Men che meno certi comportamenti vanno assecondati quando sono accompagnati dall'arma del ricatto ("Solo in questo modo si ottiene lavoro!") o seguono logiche politiche al di fuori del controllo democratico. Sono sicuro che per mio padre non era cosa facile dirmi dei "no", ma lo riteneva utile alla mia crescita e alla mia educazione. Anche per un territorio toccato dalla crisi più nera non sarà facile dire di "no" a questo "canto delle sirene", ma è doveroso farlo, perché l'erba voglio non esiste e perché lo sviluppo passa anche attraverso la preservazione, la difesa e la vera cura delle risorse che ci appartengono per natura, per diritto e per cultura. Sono certo che le forze imprenditoriali del territorio siano pronte a sostenere alternative di gestione sostenibile di queste risorse senza svendere e consumare inutilmente territorio ma dando lavoro e reddito alle comunità locali. Basterebbe semplicemente ascoltarle… cosa che fino ad oggi non è avvenuta.


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